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CORVI, TALPE, CIMICI E VELENI - Cronache dell'Antimafia (dal 5 agosto 1988 al 3 agosto 1991) di Augusto De luca
Presentazione sommaria e metodologia
Quando presi la decisione di scrivere una “storia della mafia e dell’antimafia” dopo la soppressione dell’Ufficio dell’AltoCommissario alla fine dell’anno 1992, non immaginavo, neanche lontanamente, in quali difficoltà mi sarei andato ad impelagare. In verità, il mio primo intendimento era quello di raccontare “solo” la vera storia di quelll’Istituto speciale, creato dal Governo dopo l’uccisione del prefetto Dalla Chiesa, con la moglie e l’agente di scorta, il 3 settembre 1982, soppresso una decina di anni dopo, con la falsa motivazione di un suo asserito fallimento dovuto agli “scarsi risultati prodotti”, e alla incapacità di garantire il coordinamento delle attività delle forze dell’ordine fra loro e con gli Organi giudizi. Il sottoscritto, nel corso della sua quarantennale carriera prefettizia, aveva avuto l’opportunità ( e l’onore) di lavorare per quasi otto anni, dapprima come capo dell’Ufficio legislativo dell’Alto Commissario e, poi, come capo di Gabinetto del prefetto Sica e, da ultimo, con il prefetto Finocchiaro. Man mano che proseguivo nel mio lavoro mi resi conto che era impossibile separare la storia dell’Alto Commissariato da quella della lotta contro l’“organized crime” in tutte le sue diverse manifestazioni, per cui “mi azzardai” a tentare di scrivere una storia della mafia, della camorra, della ‘ndrangheta e della Sacra corona unita, in contemporanea. Avevo deciso di scrivere questa storia per cercare di ristabilire la verità storica su uno degli “istituti”, tra i più (a torto) vituperati negli anni dal 1982 al 1992, “l’Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa”, su cui caddero, quasi sempre a sproposito, o per ignoranza delle situazioni, o per mera malafede, gli strali di una buona parte della classe politica e dei “mass media”. Nella storia vengono trattati, ma non risolti, molti temi controversi, tuttora ingran partedi attualità tra “gli addetti ailavori”, che costituiscono altrettanti interrogativi: Quali sono i rapporti tra mafia e politica? I pentiti sono sempre credibili o no? E che utilizzo fanno delle loro “confessioni” i magistrati? È soddisfacente l’attuale organizzazione che gestisce e i VIII “collaboratori di giustizia” e quanto costa alla collettività? Lo Stato è credibile quando afferma di voler estirpare la “mala pianta”? Che cosa si sta facendo per combattere il riciclaggio del denaro sporco e, tenendo conto che le attività economiche criminali deprimono l’economia sana, chi se ne sta occupando? Soprattutto, oggi, che le frontiere sono aperte. Che cosa si sta facendo di concreto per eliminare i paradisi fiscali? Il Consiglio Superiore della Magistratura è bene che continui a funzionare così come funzionava già trent’anni fa, con la sua estrema politicizzazione? Come si pensa di combattere il fenomeno delle estorsioni (il pizzo) che opprime come un macigno le attivita economiche, e scoraggia gli investimenti, soprattuto al sud del nostro Paese, ma anche in altre zone? L’organizzazione penitenziaria funziona o le carceri continuano a essere luoghi inumani (per il loro sovraffollamento)? I giudici applicano in maniera corretta le norme sulla custodia cautelare? E che uso viene fatto dei cosiddetti “avvisi di garanzia? A tal proposito, visto che le notizie relative all’avvio di indagini da parte della magistratura a carico di “chiunque” dovrebbero risultare coperte dal segreto istruttorio fino alla loro pubblicizzazione, col deposito degli atti, ma continuamente si verifica che qualche “manina” passi, “in anteprima”, la notizia alla stampa, che non dovrebbe “uscire”: si è mai avuto modo di apprendere il nome dei responsabili del fatto con la pena loro irrogata per la violazione del segreto istruttorio? Che seguito hanno avuto i 43 mila fascicoli trasferiti a suo tempo (1993) dall’Alto Commissario alla Dia? Quali sono attualmente i rapporti fra la Dia e le altre Forze di polizia? Si ritiene soddisfacente l’attuale coordinamento delle Forze dell’ordine? I fatti narrati sono stati desunti dalle cronache giornalistiche, di almeno venticinque anni, di tutte le testate di cui l’Autore è riuscito a entrare in possesso. Il materiale entrato nella disponibilità venne, nel tempo, liberamente rielaborato dallo scrivente con la scelta dei testi che avrebbero dato un senso di continuità nel filo logico della narrazione. Le frasi e le dichiarazioni rilasciate da vari soggetti (politici, magistrati, rappresentanti delle forze dell’ordine, “pentiti”, giornalisti etc, riprese integralmente dalla stampa, sono state debitamente virgolettate. Gli avvenimenti sono stati riferiti nel loro divenire, per cui le storie procedono così gradualmente, man mano che si sviluppano. Affianco ad ogni paragrafo e nell’indice generale gli avvenimenti sono stati datati, per consentire e/o facilitare la possibilità di stabilire il tempo in cui si sono verificati e di inquadrarli in relazione ad altri fatti precedenti o successivi. Ogni volume è corredato da un nutritissimo indice dei nomi con l’indicazione delle pagine in cui sono citati, per cui è agevole (anche per i “non addetti ai lavori ”) risalire a tutte le vicende in cui i vari “protagonisti” delle stesse sono rimasti in qualunque modo coinvolti. Sono stati anche predisposti un indice dei vari Enti, od Organismi citati, un elenco del nome in codice delle “operazioni di polizia effettuate e un indice degli “alias” con i quali i boss vengono (venivano) chiamati negli ambienti malavitosi. Pur avendo dedicato la massima attenzione possibile alla correttezza dei nomi e dei cognomi, non si esclude che si possa essere incorsi in errori, mutuati sia dagli stessi articoli di stampa consultati, sia dall’enorme mole di materiale esaminato. È possibile anche che sia accaduto che di qualche protagonista delle storie narrate si siano perse le tracce nelle pagine successive (ad esempio qualche persona arrestata o condannata nei primi gradi di giudizio potrà dolersi di non vedere il proprio nome successivamente liberato da qualsiasi addebito). Ciò può essere verificato a causa delle veramente considerevoli dimensioni del materiale esaminato e al fatto che, spesso, com’è noto, sulla carta stampata le “accuse” che fanno notizia sono riportate in prima pagina, mentre le assoluzioni, o le notizie favorevoli ai soggetti “indagati”, vengano relegate in qualche trafiletto, in terza o quarta pagina, senza alcun rilievo, e perciò non sempre facilmente individuabili. Preme sottolineare, comunque, che qualora ciò si fosse verificato, mancava nell’Autore qualsiasi intento denigratorio o diffamatorio. Sarà possibile rimediare a tali situazioni solo dopo(l’eventuale)pubblicazione dell’opera, man mano che dovessero pervenire segnalazioni, eventuali richieste di rettifica dei suddetti errori.
Augusto De Luca
Lettera di Francesco De Luca
È passato un anno dalla morte di nostro padre, e iniziare questa prefazione, ora che non c’è più, è qualcosa di estremamente doloroso. Eppure, sapevo che un giorno o l’altro l’avrei dovuto fare. Non sono, né sarò mai, come Augusto De Luca, perciò vorrei solo sottolineare la caratura morale, la determinazione, l’incorruttibilità e il profondo senso del dovere dell’uomo. La sua energia, la sua speranza. La speranza e l’ottimismo di vedere la giustizia e il bene sconfiggere il male e la corruzione che ammalano e deturpano il nostro splendido Paese. Negli anni, sistemerò i suoi numerosi scritti, senza alterarne il contenuto. Questa non è la mia materia, né lo sarà mai. Tutto ciò che leggerete è stato tempestosamente scritto di suo pugno, dal suo entusiasmo, dalla foga e dal desiderio di liberarsi di un fardello pesantissimo. Anche quando non c’era nessuno ad ascoltarlo, lui continuava a scolpire questa “materia macabra”, sperando che un giorno qualcuno avrebbe letto. I no delle case editrici, sin da prima dell’uscita del primo libro di Saviano, per lui sono stati motivo di frustrazione, ma mio padre era un uomo di un tempo che fu, uno stoico, un idealista tuttodiunpezzo, come quegli eroi che combattono, senza badare ai pericoli, a difesa della giustizia. Lui, che ha combattuto in prima linea, si era dato un compito difficilissimo: il compito di riportare, con l’occhio di chi ha vissuto dall’interno, in maniera privilegiata, tutti quei tremendi eventi che hanno sconquassato, per sempre, le fondamenta dell’Italia. Quando ne parlava, descriveva gli anni dell’Antimafia, con una scintilla negli occhi, anche nei suoi ultimi anni, e la passione, la profonda conoscenza dei singoli eventi e delle dinamiche globali, mostravano una forza inesauribile. Una eterna fanciullezza. Mio padre era un uomo umile, sebbene un gigante. Un eterno bambino, che amava la famiglia e i valori tradizionali, che amava scherzare, forse ancor di più dopo aver dovuto affrontare tutta quella morte, quegli omicidi, quegli incaprettamenti, quegli sgozzamenti, e tutte le brutture interne, esterne e circostanziali, che si amalgamavano sfumando sempre verso il rosso, del sangue, e il nero, della paura. Ma mio padre non ha avuto paura di fare ciò che doveva essere fatto. Di dire ciò che doveva essere detto. Di denunciare ciò che doveva essere denunciato. Perché da bravo figlio di magistrato, sapeva. E questo suo IV sapere gli è costato. Perché nel nostro Paese si può fare, ma solo fino a un certo punto. Come se, quando si affrontano verità e giustizia, il limite naturale del cielo si abbassasse. Eppure, le urla delle madri dei morti ammazzati dalla mafia, dalla camorra, dalla ‘ndrangheta e dalla sacra corona unita, continuano a riecheggiare, anche se, purtroppo, si fa troppo spesso finta di ascoltare, perché no, se possiamo distogliere il pensiero, preferiamo non sentire il sibilar di pallottole sulle persone, perché anche questa volta, per fortuna, non han centrato noi. Così mio padre scriveva. Scriveva incessantemente la storia, o meglio, le cronache di un periodo che ha segnato profondamente la vita di tutti, compresa la sua, compresa quella della nostra famiglia, e quella di chi non vuole ascoltare. Quando usciva per andare in Sicilia, in Calabria, o altrove, a combattere il male, sapeva che se avessero voluto, se si fosse voluto, poteva essere l’ultima volta che usciva di casa. Così da bambini, io e mia sorella, a metà anni 80, ci stringevamo alle gambe di nostra madre. L’ultimo bacio. E via, paletta e polizia. E quante le storie come questa, purtroppo, molte finite in tragedia. Ma non siamo soli. No. Lo so. Perché tanti sono stati gli uomini che han combattuto e s’impegnano davvero, con fede, e con fiducia nelle istituzioni e nel buon dio, uniti e disuniti, preoccupati, ma ottimisti, perché tutto finisca. Lo so. E questa rabbia, che porto dentro, e che porti dentro, nei confronti del silenzio di questo muro di gomma che assorbe dolore, strazio e vite, assorbe tutto, ed è ancora lì, che si ingozza. Crescendo, mutando, sciogliendosi per poi riprendere forma, emanando una paura ch’è ghiaccio. E ancora oggi, tic tac tic tac. Il tic tac dei tasti di questa storia è andato avanti per quasi trent’anni. Da quando fu chiuso l’Alto Commissariato Antimafia. Ma non posso parlare come avrebbe potuto fare mio padre, che, probabilmente, era e rimane uno dei maggiori esperti della materia. Perché non è giusto. Non è giusto nei confronti di nessuno. Né cambierebbe la storia. Il giorno in cui fu ucciso il Giudice Borsellino eravamo insieme, sulla spiaggia, in una giornata di luglio. Il telefono di servizio squillò. Ricordo la sua espressione, durante quella storica telefonata, e quel suo grosso cellulare nero, grande quasi più della mia faccia, che allora avevo solo tredici anni e mi schiacciavo, senza sapere da cosa fossi veramente schiacciato. In un attimo si oscurò “è finita!”, disse. E scappò in ufficio V per affrontare e cercare di capire, insieme all’Alto Commissario e a tutti i suoi colleghi, quello che fu uno degli eventi più drammatici della storia d’Italia, a poca distanza dall’uccisione del Giudice Falcone. L’ufficio dell’Antimafia era una elegante villa nel quartiere Prati, a Roma. E quando, le pochissime volte, avevo l’onore, e la gioia, di accompagnare in ufficio quel mio padre tutta cravatta e giacca, sembravo una biglia che rotolava sui contorni di lastre gracili, che sostenevano architravi pesanti, pesantissimi. Irsuto era Sica. E osservava, enigmatico, avvolto nel fumo di sigaretta. Gironzolavo, tra i suoi soprammobili, un po’ infantili. Ippopotami. Su di uno scaffale. Pennellate di colore in un mondo troppo pericoloso. Nelle stanze, che col mio sguardo di bambino vibravano dell’energia di uomini straordinari, positivi, mio padre aveva appeso qualche suo quadro. Orgogliosamente. Forse la loro presenza lo aiutava ad alleggerire la tensione. Nel suo raro tempo libero, infatti, dipingeva, come nostra madre, e canticchiava. Ma il più delle volte rientrava in casa, si sdraiava sul divano coprendosi la fronte col braccio, e non si poteva far rumore. I mal di testa lo raggiungevano puntuali. “Terribili”. Eppure, se non ricordo male, scomparvero, all’improvviso, così, quando venne chiusa l’Antimafia. Fu l’ultimo uomo a uscire da quella porta, quando l’ufficio venne soppresso. Deve aver pianto, guardando quella porta chiudersi. Accompagnandola, come per non svegliare qualcuno all’interno, mentre la fessura si faceva sempre più piccola, sempre più piccola. Tic tac tic tac. Scriveva solo con l’indice della mano destra. Un dito, per migliaia, migliaia di parole che divenivano migliaia di pagine. Questa la sua eredità. Rileggere questa sua testimonianza, a tratti, ricorda il suo modo di parlare, compreso il suo umorismo. Migliaia di pagine che verranno pubblicate, così come le aveva organizzate lui, a mo’ di cronistoria. Senza giudizio, senza particolare partecipazione, in maniera giornalistica, se vogliamo, ma non giornalistica. Un memoir collettivo, attraverso l’onestà intellettuale di un uomo che faceva paura. Perché incorruttibile. Incorruttibile perché fedele allo stato e alla legge. A nessun tornaconto personale. “Quando entravo in una prefettura per una ispezione, le persone scappavano!”. Prima di morire mi avevi chiesto “quando usciranno i miei libri?” e io ho risposto “non lo so, presto, papà”. Be’, ecco il primo. Spero possa VI vederlo, ovunque tu sia, e gioirne. Almeno un po’ di soddisfazione. Ringrazio perciò l’editore Fabio Furnari, siciliano, che conosce bene cosa significano davvero queste pagine. Spero apprezzerete questo uomo, Augusto De Luca, e questo lavoro straordinario, di cui questo libro non è che una minima parte. Perché è dedicato a ognuno di voi, a ogni famiglia colpita dall’ingiustizia e dalla prepotenza del vile, del prepotente e del violento, che spesso reagiscono con violenza dopo essere stato prima violentati, nell’omertà di finestre che non si aprono. Spesso, violenta è proprio la nostra indifferenza nei confronti del debole, del meno fortunato, di coloro che vivono nelle periferie lontane dallo stato. Allora leggiamo. Leggiamo cosa è stato. Integriamo e, forse, capiremo, guardandoci nel profondo del cuore, perché lì troveremo la voce dell’altruismo, dell’onestà e dell’amore. Grazie, papà. Ecco, finalmente, iniziamo. Tu racconta.
Augusto De Luca (1942 – 2022), napoletano, viceprefetto, saggista e pittore. Si laurea in Giurisprudenza alla Federico II di Napoli nel 1965. Inizia la carriera ministeriale nel 1969. Dal 1970 ricopre l’incarico di consigliere presso la Prefettura di Ancona. Dal 1973 al 1985 lo troviamo alla Direzione Generale della Protezione Civile e Servizi Antincendio. Dal 1985 al 1993 è capo di gabinetto presso l’ufficio dell’Alto Commissariato per il Coordinamento contro la Delinquenza Mafiosa. Dal 1993 al 2007 viene assegnato all’Ispettorato Generale, posizione che gli permetterà di ispezionare le prefetture di tutta Italia.